Talvolta lo spunto per scrivere un articolo mi nasce spontaneo: un’esperienza personale, una seduta con un proprietario e il suo cane, una riflessione in un momento di pausa. Altre volte viene dall’esterno, perché ho letto qualcosa, magari un libro o un articolo, oppure un post su un social network.
Per me è veramente importante l’aggiornamento: studiare, leggere, partecipare a corsi e seminari, o anche semplicemente confrontarmi con i miei colleghi. Non ho mai creduto nei dogmi, non amo chi si affida alla sua unica e sola verità, detesto profondamente chi sparla male dei colleghi, soprattutto alle spalle. La cosa bella del nostro lavoro è che alla fine della fiera, è prettamente pratico: se davvero ti reputi il migliore in campo, devi essere in grado di dimostrarlo con i fatti.
Era il 2004 quando ho iniziato a fare l’università. La cinofilia (e l’etologia in generale) si trovava ad una sorta di crocevia: stava prendendo campo già da un po’ il metodo gentile e la teoria del branco iniziava a dare adito a non poche perplessità. Purtroppo però tra il dire e il fare c’è di mezzo la pratica e se è vero che un’idea può sembrare eccezionale sulla carta, non è detto che poi – una volta messa in atto – dia immediatamente i risultati sperati.
Io stessa sono stata tirata su con il principio per cui se il cane tira è dominante, se entra per primo in casa è dominante, se ti salta addosso è dominante…etc etc. Ad un certo punto ho iniziato a farmi delle domande: ma se in un’ipotetica piramide il leader sta in cima e i gregari stanno alla base, com’è possibile che ci siano in giro così tanti cani dominanti e di conseguenza così pochi gregari?
La risposta me l’hanno data quei 10 anni di esperienza e formazione che sono intercorsi tra la mia laurea e oggi: un tempo mi fidavo di qualsiasi affermazione mi venisse spiattellata, oggi – se qualcosa non mi torna – chiedo, domando, mi oppongo, pretendo un approfondimento, a costo di risultare antipatica e polemica.
Il motivo è dato dal fatto che – ahimè, lo dico con rammarico – la professione cinofila non è ufficialmente riconosciuta come per esempio quella di un infermiere o di un fisioterapista. Una volta sostituite le scuole di formazione professionale con la laurea triennale, per loro si è andato definendosi un percorso univoco e coerente per tutti gli studenti; per noi altri invece, la laurea non solo non è servita per eliminare le miriadi di scuole, corsi, corsini e corsetti in tutt’Italia, ma anzi! Si è creato l’effetto opposto : “Eccola, ora è arrivata Lei, la Dottora…”, con un certo fare snob-stizzito-perplesso-schifato.
Per questo motivo, un cliente (e con questa parola mi riferisco a chiunque interagisca con una potenziale fonte di cultura cinofila), può passare tranquillamente dall’addestratore coercitivo vecchio stampo armato di collare a strozzo e voce grossa, al giovanissimo cinofilosofo che ti risolverà il problema con il tocco di una bacchetta magica a forma di sacchetto porta croccantini. Questo ovviamente complica ulteriormente le cose: ma allora io proprietario, di chi mi devo fidare?
Un argomento che mi ha davvero affascinato in questo mio lento e costante avvicinamento verso una cinofilia che io definisco “etologicamente naturale”, è sicuramente quello delle emozioni. Chiunque come me ha iniziato a studiare nei primissimi anni 2000 avrà sicuramente almeno una volta nella sua carriera recepito il concetto per cui “se un cane ha paura va ignorato. Non va mai premiato o consolato perché questo andrebbe a rinforzare i suoi comportamenti.” Stesso identico discorso per quanto concerne l’aggressività: “Eh no, se ringhia e lo accarezzi è come se tuo lo stessi premiando!”.
Vi dico la verità. All’inizio ero perplessa: l’idea che improvvisamente tutti i princìpi con i quali eravamo stati didatticamente formati non andassero più bene, non è che mi piacesse molto. Mi sentivo presa in giro! Ma allora, cosa ci avete raccontato fino ad oggi? E soprattutto: cosa abbiamo noi raccontato ai proprietari fino ad oggi? Poi ho iniziato ad avere come docenti, nei vari corsi di perfezionamento, professionisti come me, ovviamente con molti più anni di esperienza alle spalle, che avevano fatto un percorso analogo al mio. Una vita intera (o quasi) a sentirsi dire certe cose…cose delle quali non erano veramente convinti fino in fondo…però ohibò, se questo è convinto e sono trent’anni che fa così, avrà ragione, no?
No, in realtà no. O meglio, non è detto. Non è scontato che se per trent’anni hai messo con la forza il tuo cane a pancia all’aria per fargli capire chi è dei due che comanda, questo significa necessariamente che tu stessi usando un canale comunicativo corretto. Ma di questo, parleremo la prossima volta. Tornando al discorso delle emozioni, la scintilla che mi ha spalancato la mente è stata la frase della docente, che senza grandi giri di parole chi ha chiesto:
Mi spiegate come fate a rinforzare un’emozione?
Silenzio. Ok, d’accordo, rinforzare un’emozione. Partiamo dalle basi, il vocabolario Treccani: che cos’è un’emozione?
E’ un processo interiore suscitato da un evento-stimolo rilevante per gli interessi dell’individuo.
Dunque l’emozione è uno stato psicofisico dell’individuo, una reazione, una risposta a qualche cosa, che evidentemente non resta indifferente a quel soggetto. Il comportamento è – di conseguenza – la manifestazione di quel determinato stato d’animo interiore. E il rinforzo dove si colloca in tutto questo?
E se fino a qui siamo tutti d’accordo, è a questo punto che le fazioni si dividono: il fatto che io possa aumentare o diminuire la frequenza di emissione di un comportamento tramite rinforzi e punizioni, significa che io posso modificare anche lo stato emotivo che c’è dietro? Secondo Skinner e i comportamentisti in generale sì, perché questa scuola di pensiero vede la conoscenza come nient’altro che la risposta passiva e automatica agli stimoli ambientali.
Oggi giorno però molti studiosi si sono allontanati da questa visione del cane come macchinetta che funziona solo ed esclusivamente attraverso il semplice meccanismo stimolo-risposta: l’etologia si è avvicinata sempre di più al pensiero cognitivista, che vede l’individuo assolutamente in grado di elaborare internamente le risposte che provengono dall’ambiente, anche se queste non sono osservabili e misurabili, dunque impossibili da studiare oggettivamente.
Sono d’accordo con voi, è un concetto astratto estremamente difficile da definire. Io trovo sempre utile questo confronto. Avete presente quando un bambino piccolo sta giocando al parco e ad un certo punto cade e si sbuccia un ginocchio? Per lui è una tragedia greca, va dai genitori disperato con la speranza di trovare consolazione. Il genitore apprensivo si preoccupa, cerca aiuto, molto probabilmente lo porta via per medicarlo: in questo caso non sta ignorando né il bambino, né il comportamento del bambino. Il genitore “scialla” invece – davanti al piccolo disperato – è quasi scocciato, gli dice “ma via, falla poco lunga!” e continua a parlare al telefono. In questo caso viene ignorato sia il bimbo che il suo comportamento. Il genitore consapevole invece, è furbo: vede subito che il bimbo non si è fatto niente di grave (dunque non si preoccupa), ma sa che per lui questo evento è estremamente grave, dunque lo asseconda (magari con un bacino e un cerottino sulla ferita); allo stesso tempo lo incoraggia a distrarsi e gli dice “dai, non ci pensare, ti passa subito, guarda, c’è la tua amica che ti aspetta sullo scivolo!”. E magicamente, tutto passa.
Non vi ho convinto? Non importa, non era mia intenzione. Quello che mi importa – visto che si parla di stimoli – è creare quello giusto che ci porti ad una riflessione che ci faccia ogni giorno mettere in discussione: come professionisti, come proprietari e – soprattutto – come esseri umani.
https://www.academia.edu/35297737/Luso_del_rinforzo_positivo_in_classe